III.

La lirica del Duecento

Dall’imitazione dei provenzali al “dolce Stil novo”

1. Prevalente tematica amorosa della lirica duecentesca

La linea che conduce piú direttamente agli inizi della esperienza poetica di Dante (il quale, come vedremo, opera una potente sintesi dei maggiori elementi della letteratura duecentesca) è quella della lirica amorosa.

Proprio Dante giovane, nel capitolo venticinquesimo della Vita Nova, tracciava una breve storia della lirica, confermando che il tema di quella era l’amore e che l’esigenza che avrebbe spinto i primi poeti volgari a usare la propria lingua invece del latino sarebbe stata l’ignoranza del latino da parte delle donne, a cui la loro poesia si rivolgeva.

Sta di fatto che l’imponente filone della lirica, pur aprendosi, come vedremo, anche ad argomenti morali e politici, è prevalentemente costituito dall’espressione lirica di sentimenti amorosi in una varietà e in uno svolgimento del loro significato e della loro profondità che non sono solo dovuti alla forza poetica e alla complessità personale dei singoli poeti, ma insieme anche al variare delle condizioni storiche e culturali, degli ideali collettivi rivissuti dai singoli poeti. E questi, piú di quanto sia potuto avvenire in altri periodi, appaiono fra di loro assai collegati e raggruppabili, se non in scuole vere e proprie, almeno intorno a comuni programmi e ideali poetici e intorno a temi di discussione in poesia: come soprattutto la natura dell’amore, il rapporto fra questo e il cuore dell’uomo, la fedeltà e la forma di fedeltà dell’amante verso l’amata.

Ma si noti subito che lo stesso grande tema amoroso, centrale in questa corrente, non può intendersi nel suo vero e vario significato se non se ne calcoli, nelle varie fasi, il rapporto con ideali piú vasti di vita, con situazioni sociali, con elementi persino filosofici: e l’argomento amoroso implica tutto un modo di vedere la vita che può giungere sino alla complessità di elementi filosofici insiti nella poetica del «dolce stil novo».

E d’altra parte si noti subito come questa corrente impegni piú di ogni altra gli scrittori in un’opera espressiva calcolata ed elaborata, sicché anche per questo essa finisce per costituire la linea centrale della poesia e dell’arte duecentesca e la base della letteratura artistica successiva, attraverso Dante e Petrarca.

2. La poesia provenzale e antico-francese

La lirica amorosa italiana ha un suo graduato e complesso sviluppo, entro cui lo stesso problema di una lingua poetica italiana si presenta solo in un secondo momento e passa da una forma dialettale illustre (il siciliano con elementi provenzali e latini) al toscano.

D’altra parte essa si avvale di una esperienza artistica già matura e ben precisata: quella della lirica dei trovatori[1] provenzali, che nel secolo XII e XIII si era affermata come la prima grande corrente poetica europea e aveva cosí attratto l’attenzione dei centri culturali e letterari piú attivi di altre zone europee, che sull’esempio della lirica provenzale vennero costituendo delle proprie scuole poetiche. Cosí avvenne nella Francia settentrionale con i «trovieri» e in Germania con i Minnesänger, che piú precocemente trasferirono le suggestioni provenzali nella propria lingua e svolsero la propria lirica d’amore.

In Italia il processo si presenta piú lungo e difficile. All’inizio noi troviamo, specie alle corti feudali o cittadine (nel Monferrato o a Ferrara o nella marca trevisana), dei trovatori provenzali venuti a godere dell’ospitalità e della protezione dei signori, specie quando la città provenzale subí le conseguenze della rovinosa crociata contro gli Albigesi (1209). E cosí troviamo in Italia già alla fine del Millecento e all’inizio del Duecento importanti trovatori provenzali come, fra gli altri, Rambaldo de Vaqueiras, Peire Vidal che a volte traggono argomento per le loro poesie dalla vita delle corti e delle città italiane e persino, come Rambaldo de Vaqueiras a Genova (che per la sua vicinanza alla Provenza fu grande centro per i rapporti italo-provenzali), scrivono poesie miste di una parte in provenzale e di una parte in dialetto italiano.

Ma l’esempio diretto di questi trovatori in Italia non è l’unico modo in cui l’influenza provenzale si esercita sulla cultura italiana dell’epoca. Perché anche con la lettura dei testi provenzali importati nelle città italiane letterariamente piú vive si era venuto contemporaneamente formando un gruppo di trovatori italiani i quali accettavano la lingua provenzale come propria lingua poetica, non ritenendo adatta la lingua materna all’alto compito di una lirica alta e raffinata.

Ed ecco, dopo qualche piú incerto caso prima del Duecento, fiorire a Bologna Rambertino Buvalelli, a Genova Lanfranco Cigala (il piú originale e sicuro di questi trovatori italiani) con molti altri minori, a Venezia Bartolomeo Zorzi, in varie corti italiane Sordello da Goito, il piú noto di questi trovatori a causa della glorificazione fattane da Dante nel VI canto del Purgatorio.

Mentre gli altri trovatori ricordati sono legati all’ambiente cittadino e fuori dell’ambito feudale, Sordello è quello che piú corrisponde, per vita e per ideali, al tipo del trovatore provenzale che vive nei castelli, canta ed esalta poeticamente le signore feudali a cui rivolge l’omaggio del suo canto amoroso, e può trattare nella sua poesia anche argomenti ben inerenti alla morale guerriera ed eroica delle corti feudali: come Sordello fece nel celebre compianto in morte dell’eroico Sire Blacatz, il cui cuore egli immagina di dividere fra i principi e i re ignavi del tempo per dar loro coraggio.

3. La Scuola siciliana

Ma il passaggio piú importante per la storia della nostra civiltà duecentesca – cioè l’adozione di un linguaggio italiano e il trasferimento in esso dei problemi tecnici ed espressivi che la lirica provenzale suggeriva, ma che imponevano una ben maggiore difficoltà nella nuova lingua – ebbe luogo piú tardi in Sicilia e precisamente alla corte di Federico II di Svevia.

Qui, in una corte fastosa, ricca di cultura internazionale (dove il grande re e imperatore aveva raccolto, con illuminata politica culturale, dotti greci e scienziati arabi insieme ai suoi nobili colti e ai suoi alti funzionari che erano insieme letterati, come il grande segretario Pier della Vigna), trovò ragioni piú consistenti di sviluppo una scuola poetica che pretendeva ad una propria individualità, elaborando una lingua poetica, basata sul siciliano, ma arricchita di elementi italiani, provenzali e latini, atta a sostituire il provenzale in una lirica amorosa che pur derivava da quella provenzale i suoi temi fondamentali e le sue regole artistiche.

Si tratta di un gruppo di rimatori di alto livello sociale e stretti dalle loro mansioni alla Magna Curia, cioè corte, di Federico, che volle egli stesso dare esempi nella nuova lirica, come fecero anche i suoi figli Enrico, Manfredi ed Enzo, re di Sardegna e Federico di Antiochia.

In quei decenni di floridezza poetica e culturale, intorno alla corte di re Federico II e di Manfredi si raccolgono rimatori di varie parti d’Italia, siciliani, pugliesi, liguri, come Percivalle Doria (che fu prima podestà a Arles e Avignone e poetò in provenzale e quindi fu vicario di re Manfredi in Umbria, Marche e Romagna), e sin toscani come Jacopo Mostacci, che fu, forse, senese, e Arrigo Testa aretino, ma tutti legati alla corte sveva (e quasi sempre funzionari e cortigiani imperiali) e tutti raccolti nell’esercizio di una comune «poetica» che corrisponde anzitutto alla ripresa degli esempi della poesia provenzale e al loro adattamento alle esigenze di una corte fastosa, colta e raffinata. E quindi lo schema fondamentale di una poesia amorosa come omaggio cavalleresco e cortigiano a dame di alta condizione sociale viene accolto e consolidato nella «poetica» della Magna Curia. E la stessa figura della donna viene in qualche modo nobilitata (secondo le esigenze di una vita di corte che tende piú all’omogeneo che all’eccezionale) riconducendola ad una specie di figurino, di modello esemplare di cui non si cerca tanto la individualità e la vitalità e il movimento psicologico, quanto il decoro della figura e di una bellezza distaccata ed altera.

Ad essa il poeta chiede, piú che vera corrispondenza, mercede e pietà, e il rapporto amoroso, al cui fondo si cela un’idea dell’amore come piacere fisico, viene indagato in poesia, sottoposto ad una casistica in cui il poeta può soprattutto eccellere piú con la sottigliezza del suo ragionamento che non con la forza dell’ispirazione e delle immagini.

E certo si potrà dire in generale che in questo gruppo di scrittori la volontà di adeguarsi a certe esigenze comuni, a certi canoni di bellezza (cui contribuisce, come dicevo, la mentalità di una società cortigiana che tende al conformismo piú che alla distinzione individuale), lo stesso sforzo di creare un linguaggio poetico in una lingua fino allora non sperimentata in tale uso porta ad una certa uniformità e monotonia, ad una scarsa possibilità di individuare bene le varie voci poetiche.

Sicché la scuola siciliana appare, nella nostra storia letteraria, piú come un momento e movimento d’arte unitario e compatto, eccezionalmente importante per essere stato il primo in tale direzione e per avere costituito una tradizione precisa entro il disperso periodo delle origini della nostra letteratura, che non come complesso di individuate personalità poetiche.

E indubbiamente l’impegno che questi rimatori misero nella loro attività poetica (tutt’altro dunque che una specie di hobby e di passatempo del tutto marginale nella loro vita), la serietà con cui si proposero problemi di tecnica, di linguaggio, di metrica (ad essi risale l’uso del sonetto, che tanta parte avrà nella lirica italiana), colpiscono piú come qualità generali di un gruppo che non come qualità di singoli poeti.

Tuttavia sarebbe errato concludere, come troppe volte si fa, per una frigidità assoluta e per una specie di poesia anonima, impersonale. Da tempo due figure di poeti spiccano nell’ambito della scuola siciliana: Giacomo da Lentini, detto il Notaro, e, assai piú in alto, Giacomino Pugliese.

Il primo, forse il piú vecchio di questi rimatori, nato alla fine del secolo XII e morto fra il 1246 e il 1250, è soprattutto notevole per alcuni sonetti sulla natura dell’amore.

Il secondo, forse identificabile con un podestà imperiale, Giacomo da Morra, presenta, entro gli schemi della poesia amorosa di corte, una singolare ricchezza psicologica e una inclinazione voluttuosa e sensuale, che trovano traduzione in un ritmo piú mosso, in immagini piú realistiche, in una certa felicità melodica.

Si legga la canzone riportata nell’antologia, La dolce cera piagente, e si avrà la prova di un sentimento poetico schietto, anche se non eccezionale, che anima e solleva i modi e il linguaggio di scuola ad una loro funzione espressiva meno convenzionale e ripetitoria.

Soprattutto Giacomino ha, con abilità e felicità inventiva, alimentato la sua poesia di «scuola» con la ripresa di modi della poesia popolare piú disordinata, e di per sé incapace di costituire documenti di arte, ma che nelle mani di un poeta colto ed abile poteva venire bene utilizzata in un incontro di schiettezza e di serietà artistica.

E se il caso di Giacomino è il piú rilevante e il piú chiaramente inserito nella poetica alta e raffinata della scuola siciliana, non mancano altri casi di rimatori colti della stessa scuola che concedono attenzione a modi e sentimenti popolari come a forme di vita piú autentica e poetica e ne traggono componimenti piú gradevoli e mossi: come è il caso di Rinaldo d’Aquino con una canzone in cui una donna esprime il suo dolore per la partenza dell’amato che va alla crociata, o il caso di Odo delle Colonne con il lamento di una fanciulla abbandonata dal suo amante, o quello di Ciacco dell’Anguillaia con il suo contrasto vivace e realistico fra una villanella e un cavaliere.

Ciacco era fiorentino e questa costatazione geografica ci riporta a quanto dicevamo circa l’appartenenza di poeti siciliani a varie regioni d’Italia e tuttavia idealmente e realmente legati alla corte dei re di Sicilia.

Ma andrà poi aggiunto che in realtà i rimatori della scuola siciliana sono o meridionali o toscani e che, quando la corte sveva scomparve insieme al potere politico degli svevi, dopo la battaglia di Benevento (1266) in cui trovò la morte Manfredi, la prosecuzione della scuola poetica siciliana si ebbe in Toscana, dove già si poetava – abbiamo visto – da parte di rimatori toscani appartenenti alla scuola siciliana.

4. La poesia toscana e Guittone

La Toscana, ancor prima del predominio di Firenze, attuato nell’ultima parte del secolo, è ormai la regione d’Italia in cui ricchezza economica (fra il porto di Pisa, le banche di Firenze e di Siena, le manifatture di vari centri) e vitalità politica si accordano in uno sviluppo piú coerente.

Nella Toscana prosperano città vive e culturalmente attive come Pisa e Lucca, che hanno una piú antica tradizione culturale, come Arezzo, Firenze, Siena, Pistoia in fase crescente di sviluppo. E queste città sono organizzate in comuni che hanno una vita politica intensa sia nei rapporti esterni sia all’interno della città.

Sicché da una parte i moduli della poesia siciliana verranno ulteriormente raffinati e complicati e le «tenzoni» e «questioni» sull’amore diverranno sempre piú sottili e insieme si configureranno come gare di abilità, in una civiltà piú ricca di rapporti di emulazione. E d’altra parte, in quel tipo di poesia ancor piena di residui di linguaggio provenzaleggiante e «siciliano», la nuova vita comunale non può non portare elementi diversi di passione politica e di sentimento morale, religioso, mentre la rinnovata lettura diretta dei poeti provenzali, e specie di quelli dell’ultima fase, piú spirituale e intellettuale, porta ad ampliare la stessa tematica amorosa al di là dell’omaggio e della richiesta di mercede amorosa verso forme piú complesse e spirituali che in parte preparano il clima del dolce Stil novo.

E certo il duro giudizio di Dante, che accomunava i siciliani e i toscani prima dello Stil novo in una condanna di insufficienza poetica e di linguaggio municipale e prosaico, è piú dettato dall’orgoglio polemico del grande poeta e del rappresentante di una civiltà letteraria compatta e nuova, che non da una misurata e storica valutazione dell’importanza di rimatori che andavano già al di là della pura continuità siciliana, come fu soprattutto il caso (in mezzo a moltissimi rimatori delle varie città toscane che testimoniano, comunque, col loro numero, della fortissima diffusione della attività poetica in Toscana) di Guittone d’Arezzo.

Anche altri casi diversi potremmo ritenere degni di ricordo o per singolare schiettezza d’ispirazione (come quella poetessa detta «Compiuta Donzella» con i suoi tre sonetti amorosi cosí semplici e reali), o per anticipi sulle posizioni stilnovistiche (come fu dei fiorentini Monte Andrea e Chiaro Davanzati, portatori già di una concezione della donna come «angelica creatura», che riprendevano dagli ultimi trovatori provenzali).

Ma solo in Guittone del Viva d’Arezzo (nato intorno al 1230 e morto nel 1294) possiamo individuare una rilevante personalità culturale e letteraria, anche se non si potrà parlare per lui di un vero e grande poeta.

Egli divenne il caposcuola di questi rimatori toscani (che una volta si chiamavano «scuola di transizione» fra la scuola siciliana e il dolce Stil novo) e il suo influsso fu vivo persino negli inizi della poesia dantesca e, anche piú tardi, Dante stesso poté risentire l’influenza delle sue canzoni morali e dottrinali. Infatti Guittone, che nella sua vita passò da una fase giovanile mondana ad una fase religiosa e morale (dopo che nel 1265 si fece frate nell’ordine dei Cavalieri di Santa Maria), anche nella sua vasta produzione poetica presenta, accanto a poesie amorose, componimenti di materia religiosa, morale e persino politica.

E questo va messo bene in luce: la vastità del suo esercizio poetico, l’applicazione di esso a temi e argomenti che corrispondono all’allargamento di interessi suscitati dalla vita comunale, e insieme la forza del suo organismo espressivo, della sua arte eloquente e razionale, della sua sintassi e della concatenazione dei componimenti, che sostanzialmente si manifesta in tutte le direzioni della sua attività persino quando, nella rimeria amorosa, si fa piú sottile, enigmatico, astruso.

E se egli poté fare scuola anche in questo tipo di poesia lambiccata e artificiosa (cosa che era sentita come arte piú difficile e piú alta) e promuovere cosí una lirica sofisticata e astratta che Dante poi rifiuterà, dopo averle pagato un tributo molto giovanile, soprattutto egli fece scuola, e scuola altamente positiva, con il suo periodare logico e concatenato, con la coerenza delle sue strutture discorsive, che segnano un notevole avanzamento rispetto alla costruzione piú debole dei siciliani e che Guittone esercitò anche nella sua attività di prosatore, di scrittore di lettere in volgare. Prevale in Guittone una forza intellettuale che non trova adeguato movimento fantastico, ma che, ripeto, poté motivare l’esemplarità e maturità della sua scrittura, del suo rigore costruttivo e che, d’altra parte, ha pure un singolare modo di espressione eloquente e vibrante quando si incontra con la passione morale e politica. Come avviene in quella canzone che egli, guelfo e perciò, benché aretino, legato alla guelfa Firenze, scrisse per la sconfitta fiorentina e guelfa a Montaperti, riversando in essa, e nei suoi modi eloquenti e robusti, il suo complesso sentimento di uomo vivo nelle passioni del tempo, fra sarcasmo, sdegno e dolore, esortazione e rampogna.

Come si può vedere da questa canzone, la poesia toscana aveva trovato la forza di uscire dal puro ambito degli argomenti amorosi e di aprirsi, pur nel rigore artistico che si era ottenuto sulla linea della poesia amorosa, a sentimenti piú vari e legati alla vita comunale tanto piú varia e stimolante di quella delle corti feudali dei castelli o della stessa corte siciliana.

E se si guarda al panorama generale della letteratura toscana, e particolarmente di quella fiorentina che viene ora a poco a poco, per intensità e vastità di interessi e di personalità, affermandosi insieme al primato politico ed economico del grande comune di Firenze, tanto piú si noterà che accanto alla poesia amorosa (che trova il suo alto esito nel dolce Stil novo) si svolge la poesia comico-realistica, la poesia didascalica e morale e, in prosa, la cronaca, la novellistica, accanto all’attività dei volgarizzatori dal latino e dal francese e ai trattatisti di grammatica e di eloquenza.

La vita del comune con la sua libertà e la sua dialettica di classi e di fazioni, con la nuova ricchezza della classe borghese, e quindi con le nuove esigenze di agio e di arricchimento culturale, di conoscenza e di mezzi espressivi atti alla stessa politica, provoca sempre piú questo vasto allargamento dei domini della letteratura. E Firenze tanto piú associa una volontà di primato culturale e letterario al primato politico che viene affermando dopo Campaldino e la sconfitta dei ghibellini. E si ricordi come lo stesso Dante, che svolse la sua prima formazione giovanile soprattutto sulla linea della poesia amorosa e dello Stil novo, nella Divina Commedia riconobbe un suo piú vero maestro integrale di cultura e di letteratura in quel Brunetto Latini (1220-1293) che non fu un rimatore d’amore, ma un politico e volgarizzatore di testi retorici di Cicerone, autore di un’enciclopedia scientifica in francese, il Trésor, e di un poemetto allegorico-didattico in volgare, il Tesoretto, opere tutte volte ad una diffusione di cultura e ad un ammaestramento insieme letterario-espressivo e morale-politico, sentito come necessario alla vita pubblica del cittadino e dell’uomo di governo.

5. Guido Guinizelli e lo “Stil novo”

Tuttavia è ancora nella poesia amorosa che la letteratura fiorentina trova la sua espressione piú alta, sia per risultati poetici, sia per finezza e coerenza di linguaggio, sia per complessità e profondità di motivi ideali e spirituali.

Già in Monte Andrea e soprattutto in Chiaro Davanzati la lirica fiorentina aveva ripreso i piú tardi sviluppi della concezione dell’amore nella tarda lirica provenzale e aveva dato vita ad una figura di donna luminosa, ricca di bellezza e di virtú, capace di accrescere con la sua visione la stessa virtú del poeta.

Ma è a Bologna (la città della maggiore Università italiana e della maggiore facoltà giuridica di tutta Europa, la città in cui si era svolta già l’attività poetica in provenzale del Buvalelli e quella popolaresca delle liriche raccolte nei memoriali dei notai) che la concezione spirituale e morale dell’amore prende piú chiara e individuata consistenza, divenendo poi il fondamento dell’attività poetica del gruppo di nuovi poeti fiorentini dominato dalla grande personalità di Dante.

L’iniziatore di questa importantissima direzione poetica fu appunto il bolognese Guido Guinizelli, nato fra il ’30 e il ’40, giudice e consultore del comune bolognese, bandito dalla città come ghibellino e morto in esilio a Monselice nel 1276.

A lui si deve anzitutto una canzone, Al cor gentil ripara sempre Amore, che costituisce il programma, il bando della sua poetica e che come tale venne sentito e ripreso dagli stilnovisti fiorentini e, fra essi, da Dante, che riconobbe in Guinizelli l’iniziatore della nuova maniera poetica, l’autore di quelle rime «dolci e leggiadre» che avevano dato l’intonazione e la direzione della poesia del «dolce stil novo».

Ed è proprio dallo sviluppo dei motivi di quella canzone che si può facilmente ricavare anzitutto la caratteristica concezione amorosa dello Stil novo. L’amore fa tutt’uno con la gentilezza del cuore in cui viene a prendere stanza, sicché l’amore non può stare se non in un cuore gentile (e cioè virtuoso, generoso, nobile, ma di una nobiltà tutta spirituale e personale, non ereditaria e di sangue), ed è assurdo, impossibile che un cuore gentile non accolga l’amore, non ami. E l’amore non è una passione sensuale, cieca, ma un sentimento che eleva fino all’unione con Dio per mezzo di una donna in cui la bellezza sia pari alla virtú, e dunque appaia all’amante come una «angelica creatura», come una creatura piú che umana, quasi come un angelo.

Nella formazione di questa concezione, pur non priva di precedenti che risalgono alla piú tarda poesia provenzale, hanno certamente influito se non precise tendenze filosofiche, certo i generali stimoli della cultura e della religione del tempo di cui ritornano nella lirica stilnovistica, fin dal Guinizelli, addirittura termini e modi di ragionamento e soprattutto la tensione verso una visione unitaria e centrale che culmina in Dio e cosí eleva e nobilita il sentimento dell’amore sottratto alla sua elementarità naturale, alla semplice casualità di legami convenzionali: l’amore stilnovistico infatti non si svolge mai nei termini del rapporto coniugale e si rivolge anzi a donne spose di altri, e d’altra parte rifiuta il desiderio sensuale e lo supera in un bisogno di unione spirituale quando, come avverrà soprattutto in Dante, non si esalta del suo puro e semplice esistere, del suo esprimersi senza alcuna richiesta di corresponsione neppure ideale.

In questo esasperato spiritualismo ritornavano elementi della mentalità religiosa del tempo e insieme un piú o meno consapevole bisogno di sottrarre l’amore ad ogni condanna e giudizio esterno o ad ogni convalida legale e religiosa, se esso era di per sé via di perfezione morale, scala al cielo, a Dio. E d’altra parte deve esser pur chiaro che in questa suprema tensione spirituale e poetica si esprimeva la raffinatezza intellettuale, morale ed artistica di uomini di alta cultura che, entro la situazione sociale e culturale della città-comune, miravano anche ad una nobilitazione, ad una elevazione e distinzione che superava le classi sociali e insieme dava un suggello di nuova aristocrazia spirituale alla cultura e letteratura della nuova civiltà comunale. Basti ricordare il tema cosí importante della canzone-bando del Guinizelli sulla vera gentilezza-nobiltà che non deriva dalla trasmissione ereditaria o dalle ricchezze accumulate nei secoli (come spiegherà poi Dante nella canzone sulla nobiltà del Convivio) ma dalla virtú e disposizione personale.

La poesia era cosí anche mezzo di polemica sociale (contro la vecchia aristocrazia feudale, fiduciosa solo nella propria antica schiatta, e contro la borghesia piú volgare e fiduciosa nelle sue ricchezze) e di creazione di un ideale di nobiltà culturale e spirituale che, pur sviluppandosi entro un piccolo cerchio di letterati, non poteva non aver riflessi sulla civiltà cittadina.

E la letteratura, raffinata e tecnica, trovava una sua dignità maggiore in quanto esprimeva esigenze profonde del tempo e si inseriva in un movimento culturale e civile piú di quanto non fosse avvenuto con Guittone, i guittoniani, i siciliani.

Gli stilnovisti non parlano di politica, di argomenti che non siano di amore, ma nell’amore fanno confluire esigenze spirituali e morali essenziali per una nobilitazione della nuova classe dirigente comunale.

Ma non si valuta tutta l’importanza della nuova corrente poetica, inaugurata dal Guinizelli e concretata piú coerentemente nel gruppo dei giovani poeti fiorentini, se non si tiene conto insieme della sostanziale novità (non tanto materiale quanto di direzione e di prospettiva) dei loro temi e della novità coerente del loro linguaggio, del loro stile.

Come sempre le due cose non sono indipendenti e la stessa definizione che del dolce Stil novo dette Dante nel XXIV canto del Purgatorio («I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando») andrà spiegata in maniera piú intera di quanto sia stato fatto, prima accentuando romanticamente la spiritualità e immediatezza del cantare sotto l’urgenza dell’ispirazione, poi, in tempi piú recenti, puntando unicamente sulla elaborazione tecnica ed artistica del contenuto, sulla novità insomma della maggiore sicurezza e cura artistica.

In realtà Dante coglieva potentemente tutto il percorso dell’operazione poetica e della novità della poesia d’amore guinizelliana-fiorentina rilevando la perfetta coerenza fra la spontaneità e l’elaborazione, fra la novità dell’aderenza all’interno sentimento e quella della adeguata espressione verbale. La novità non era puramente tecnica né puramente sentimentale. E Dante esprimeva un’interna poetica che fu esemplare per tanta lirica successiva.

Della raffinata elaborazione espressiva, della complessità e altezza del linguaggio stilnovistico (che raggiungerà le sue punte estreme insieme alle estreme punte della concezione d’amore nelle rime centrali della lode, nella Vita Nova di Dante) è già prova notevole la poesia del Guinizelli. E se nella canzone-bando una maggiore programmaticità porta con sé un piú duro impiego di moduli ragionativi e intellettuali, di paragoni scientifici e filosofici adatti a chi voleva fondare su di un alto piedistallo di cultura una nozione di poesia raffinata e colta, negli altri suoi componimenti su certo linguaggio piú metallico e astruso prevalgono una grazia elegante, una luminosità vaga e diffusa, un’inclinazione melodica, che ben corrispondono alla sua tendenza di estasi contemplativa di fronte alla donna amata e cantata.

Certo nel piccolo gruppo fiorentino che riprende e svolge originalmente la lezione del Guinizelli le direzioni di gusto, di linguaggio si fan tanto piú sicure. Cosí come il canto amoroso si precisa entro un tipo di alta società intellettuale cittadina e in una singolare comunanza di interessi sottolineati dal nuovo elemento dell’amicizia che lega questi poeti e che dà al loro canto pur cosí individuale un certo fondo di coralità e di colloquio tra persone di comune cultura e di comuni idealità.

E non si può dire che tale elemento manchi nel piú sdegnoso e aristocratico personaggio del gruppo: quel Guido Cavalcanti che piú fortemente sentí disgusto per la «noiosa gente», per la gente volgare, non gentile (e la sua stessa condizione sociale nobiliare poteva trasferirsi piú fortemente in questo nuovo senso di nobiltà spirituale), e che pure sentí fortemente il rapporto dell’amicizia con Dante.

6. Guido Cavalcanti e gli stilnovisti toscani

Nato da una grande famiglia fiorentina intorno al 1250, Guido Cavalcanti fu uno dei personaggi piú rilevanti nella vita culturale e politica fiorentina del tempo: acceso e passionale nemico dei guelfi neri e dei Donati (pare che egli cercasse di uccidere con un dardo lanciato da cavallo il capo di quella famiglia, Corso), fu, nel 1300, bandito dalla città fra i capi piú settari delle due fazioni in lotta, fu confinato a Sarzana da dove tornò nello stesso anno stanco e malato e morí poco dopo il suo ritorno.

Fra queste notizie sicure sulla sua vita e altre piú indirette sul suo carattere malinconico, sdegnoso e sulla sua tendenza piú che eretica, addirittura atea (il Boccaccio narra di lui che meditava per veder di dimostrare la non esistenza di Dio), si può ricostruire una figura estremamente suggestiva che dové colpire fortemente l’immaginazione dei contemporanei e suscitare odi e simpatie profonde, come quella di Dante che lo chiamò il suo primo amico, pur non esitando, come priore, a condividerne la condanna all’esilio e confermando, nel canto di Farinata, la sua condanna come lontano dalla via di salvezza della teologia.

Certo è che Guido Cavalcanti (come Dante disse nel canto XI del Purgatorio) tolse presto la «gloria della lingua» all’altro Guido, il Guinizelli, e, riprendendone l’essenziale impostazione poetica, la modificò piú fortemente (mentre Dante, come vedremo nel capitolo a lui dedicato, dopo un forte influsso cavalcantiano, ritornerà piú direttamente sulla via aperta dal Guinizelli) fino a dare l’impressione di un capovolgimento.

La sua natura meditativa e malinconica, un’esperienza aristocratica ed amara della vita si congiunsero in lui ad una visione drammatica ed angosciosa: che – mentre tendeva alla salvezza offerta dall’amore stilnovistico divenuto per lui cosí ideale da confondersi con una astrazione intellettuale – dell’amore avvertiva, soffrendone la potenza fatale e quasi demoniaca, la forza distruttiva e irrazionale di fronte alla quale lo stesso organismo fisico e intellettuale dell’amante veniva disgregato e sconvolto, annullato.

Da ciò nasce nella poesia del Cavalcanti una doppia tendenza: quella che culmina, piú vicino al Guinizelli, nella contemplazione della donna nella sua miracolosa, incomparabile bellezza (con un’aggiunta di sorpresa, di smarrimento che investe persino le entità fisiche: «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira / e fa tremar di chiaritate l’âre?»), e quella (connessa alla prima, nella forma di un contrasto, ma anche di un’analogia nel carattere comunque eccezionale dell’amore) che porta il poeta a immaginare un conflitto drammatico fra l’amore (spesso figurato come guerriero) e l’animo e il corpo dell’uomo, per lui colpito attraverso gli occhi dalla vista della bella donna:

Voi che per li occhi mi passaste ’l core

e destaste la mente che dormia,

guardate a l’angosciosa vita mia,

che sospirando la distrugge Amore.

All’ingresso vittorioso dell’amore tutte le facoltà dell’uomo, rappresentate, in forma drammatica e scenica (e secondo la dottrina dell’aristotelismo averroistico), come spiriti e spiritelli dotati di propria personalità, si alterano e fuggono e lasciano l’uomo ridotto a corpo inanimato.

Grande è la forza e l’originalità del Cavalcanti – che è certo il piú grande dei poeti d’amore prima di Dante – nel dar vita nei suoi componimenti a questa poesia del dramma amoroso, che è poi da lui ampliato con ricchezza di sfumature e di particolari piú realistici e autobiografici (la vicenda dell’innamoramento per una Mandetta a Tolosa durante un viaggio verso San Giacomo di Compostella) e di riflessi di poesia piú cantabile, aggraziata, idillica, come nella incantevole ballata della pastorella presa da subito amore. Né mancano in lui prove in quel genere comico-realistico di cui parleremo fra poco.

Ma, senza esagerare sulla sua unicità ed eccezionalità rispetto ad un canzoniere cosí ricco di alti esiti e a volte intensi e fantasticamente potenti, par giusto ancora ricercare una delle espressioni piú dolenti e delicate dell’alto spirito cavalcantiano in quella famosissima ballata dell’esilio («Perch’i’ no spero di tornar giammai»), in cui la drammaticità cavalcantiana si attenua in elegia e in grazia composta e gentile, quasi epilogo piú tenue e pur originalissimo della sua vicenda vitale e della sua esperienza poetica cosí alta e impegnativa.

Il vero passaggio di sviluppo dello Stil novo va da Cavalcanti a Dante e a Cino da Pistoia. Perché gli altri rimatori fiorentini, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, hanno un interesse molto minore, sia per la loro personalità e le qualità intrinseche della loro limitata poesia, sia per capacità di sviluppi e variazioni diversi rispetto ai temi e modi centrali della poetica impostata da Guinizelli e da Cavalcanti.

A parte il grandissimo Dante, la cui esperienza poetica giovanile, con la Vita Nova e le rime non comprese in questa, è la risoluzione piú alta dello Stil novo, anche il caso di Cino da Pistoia ha un suo significato notevole rispetto agli altri minori rappresentanti dello stilnovismo.

Tutto sommato questo attivo e fertile rimatore, che fu insieme uomo di alta cultura e grande maestro universitario di diritto (nato a Pistoia nel 1265 circa, dalla famiglia dei Sighibuldi, professore di diritto a Firenze, Perugia e Napoli, morto nel 1337), rappresenta, accanto alla soluzione dantesca, l’epilogo del dolce Stil novo, riprendendone i temi essenziali, ma complicandoli con una maggiore ricchezza di occasioni e di toni (intorno alla vicenda dell’amore per una donna da lui chiamata Selvaggia) dolenti, drammatici, idillici, ma anche con una schematicità piú arida. Ciò che nei primi stilnovisti era un’invenzione insieme della fantasia, dell’animo e dell’intelletto, ora in Cino diviene una maniera piú pesante e complicata. Eppure nella insistenza psicologica, in cui si va perdendo quel che di piú libero, vago e nuovo c’era negli altri poeti, può pure avvertirsi una volontà e un bisogno di maggiore realtà e analisi della vicenda amorosa che ha fatto parlare di anticipi della poesia del Petrarca nell’opera di Cino.

La poesia comico-realistica

1. Tendenze della poesia realistica

Può stupire un lettore impreparato il fatto che poeti tesi ad una lirica cosí alta, raffinata e spirituale, non abbiano sdegnato di scrivere anche qualche componimento crudamente realistico sia per i temi trattati (invettive, violente caricature o ritratti comici di personaggi ridicoli e criticabili), sia per il linguaggio ben lontano e addirittura opposto a quello cosí elegante e scelto dello Stil novo.

E infatti sonetti comici e satirici troviamo fra i componimenti del Guinizelli, del Cavalcanti, di Cino e dello stesso Dante, autore di quella giovanile tenzone con Forese Donati di cui egli sembra recitare la palinodia nel canto XXIII del Purgatorio e che è certo ben lontana dal clima ideale e spirituale della Vita Nova.

In realtà le cose sono diverse da come si possono immaginare secondo schemi troppo rigidi e unilaterali. La civiltà comunale del Duecento e del primo Trecento (insomma dell’età di poco precedente e di poco seguente alla vita di Dante) non può essere rappresentata solo secondo l’immagine astratta di una continua tensione spirituale e mistico-amorosa, di una costante preoccupazione religiosa, teologica, ortodossa o ereticale che fosse. Anche in uomini di alta spiritualità e di raffinate esigenze spiritualmente aristocratiche, come gli stilnovisti, l’esperienza della vita si presenta in tutta la sua complessità ed anzi la stessa loro volontà di piú alta distinzione nella poesia amorosa si attua in rapporto con un’esperienza libera e spregiudicata di tutta la vita e di tutta la realtà: e di questa a volte possono interpretare ed esprimere aspetti diversi senza con ciò pregiudicare la spinta centrale e piú alta della loro direttiva di cultura e di poetica.

Anzi la civiltà duecentesca è tutt’altro che rigida, conformista e convenzionalmente moralistica ed è bene subito notare che nel suo massimo esponente poetico, Dante, e nella sua opera piú intensamente spirituale, morale, religiosa, la Divina Commedia, non mancheranno certo espressioni, termini di linguaggio, figurazioni di crudo, estremo realismo, dette con la spregiudicatezza e la superiorità di un uomo e di un tempo libero ed intero, senza remore e complessi morbosi, volontario nella scelta di certi valori, non pauroso della realtà anche se teso a cercarne una superiore e piú sicura e durevole.

D’altra parte chi si trovi a leggere poesie come quelle sopra ricordate o poesie di scrittori piú direttamente e prevalentemente o esclusivamente impegnati in una poetica realistica o comico-realistica (come si usa dire pensando al significato medievale di «comico» come stile medio, non illustre, fatto di argomenti e linguaggio comuni e parlati) dovrà subito aver presente una sua tradizione precedente, fra la poesia giullaresca e quella goliardica mediolatina, e cosí essa rappresenta per i suoi autori anche un’esperienza letteraria, una prova d’arte che ha sue caratteristiche, sue forme, suo linguaggio.

Non si tratta, dunque, di una specie di reazione allo Stil novo in nome dell’espressione immediata, senza pretese artistiche e quindi piú sincera e insieme piú rozza.

Si tratta di un’altra direzione del gusto e delle tradizioni letterarie della civiltà comunale (e soprattutto toscana) del Duecento. E deve essere dunque valutata anche nei suoi valori artistici, nella serietà di impegno artistico dei suoi autori.

Né con ciò si giunge, d’altra parte, all’idea assurda che scrivendo poesie comico-realistiche gli scrittori toscani si proponessero solo un intento letterario e quasi un esercizio di bravura senza ragioni intime e senza sentimenti adeguati.

Tale idea deve essere risolutamente scartata e il giovane lettore, anche se gli sarà difficile, deve capire invece che quando un Cecco Angiolieri scrive i sonetti contro il padre e la madre o il celebre sonetto «S’i’ fosse foco» esprime un suo sentimento crucciato, dispettoso, inquieto e irrequieto, legato anche ad un’esperienza vitale disordinata e rissosa, e che, d’altra parte, lo esprime con un margine di esasperazione e di esagerazione, fra seria e parodistica, che è relativo anche ad una tradizione di invettive e di poesie comiche di cui egli riprende e svolge originalmente le forme.

2. Rustico Filippi

La corrente comico-realistica, che capovolge la poetica alta e spirituale dello Stil novo, nasce dallo stesso ambiente cittadino e regionale: la Toscana. E proprio a Firenze nasce e vive il primo poeta di questa corrente: quel Rustico Filippi (1230 circa-1300 circa) che, in tempi recenti, è stato giustamente riconosciuto come personalità poetica autentica e, seppure meno ricca di gradazioni, superiore allo stesso Cecco Angiolieri per una fortissima violenza sarcastica.

Rustico, accanito ghibellino, porta nelle sue poesie comiche (ha pure una sezione di tipo amoroso-idealistico non priva di una certa efficacia psicologica, e certo assai diversa da quella degli stilnovisti) un accento di risentimento acre e di accesa forza polemica che superano di molto un piano puramente giocoso o comico, nel senso corrente della parola. Ché anche quelle piú velate ed ironiche (come la caricatura di Messer Messerino, o quella del povero miles gloriosus medievale, o le scuse e i conforti di una moglie infedele al marito tradito) hanno un fondo di sarcasmo incisivo che poi, piú direttamente e con una energia e foga espressiva davvero insolite, si esprime in poesie di piú diretta invettiva contro avversari politici o contro donne di cui si mette in rilievo la sfrontata cupidigia amorosa, l’animalesca lussuria. E anche in queste non c’è compiacimento di poeta osceno, ma la forza di un’espressione caricaturale sanguigna e violenta, di un risentimento, di una vendetta che pare andare al di là del personaggio colpito e dar voce ad una condizione di amarezza feroce, di esperienza scettica degli uomini e della vita.

3. Cecco Angiolieri

In confronto alla violenza di Rustico la poesia comica di Cecco Angiolieri (nato a Siena nel 1260 circa, morto nel 1312) appare insieme piú ricca di toni e di occasioni, ma anche piú lieve, compiaciuta ed abile. Non si tratta certo di negare una fondamentale sincerità e verità alla sua poesia che, trattando coerentemente temi realistici, dà vita quasi ad un ciclo compiuto di sonetti come rappresentazione di una esperienza angusta e comune, chiusa nella precisa angolatura di una scena cittadina comunale con le sue taverne, con scioperati dediti solo al vino, al giuoco, ad amorazzi con donne basse e triviali.

In questo mondo limitato, ma colorito e ad aspri contorni, il giovane borghese traviato (Cecco era di famiglia agiata e di alta condizione) si immerge con crucciosa intensità, ribellandosi alle relazioni familiari subíte con impazienza o ricercate solo per attingerne quel danaro senza cui si sente avvilito e annullato: la moglie fastidiosa e insopportabile con le sue continue recriminazioni, il padre e la madre avari e troppo longevi. Di contro, anche la vita prescelta è piena di difficoltà e di crucci. Ché la donna amata, la popolana Becchina, non vuole amore senza denaro ed offre cosí una soddisfazione sensuale sempre in pericolo e alimentata da rancore, risentimento, gelosia da parte dell’amante.

Certe note e certe parole (come le parole malinconia e noia) fecero esagerare, specie nella critica romantica, la drammaticità e disperazione di Cecco. È certo che tutto va ricondotto ad una misura piú breve e piú storica e che un margine di accentuazione e di esagerazione non manca mai nel gusto iperbolico di Cecco.

Eppure anche per lui non si può parlare di puro divertimento ozioso e giuoco letterario e la sua poesia rimane come una lettura di singolare vivacità ed anche di storica testimonianza di una condizione di vita e di una esperienza molto caratteristica della vita cittadina: la scioperata condotta di individui piú restii alle regole della comunità, avidi di piacere e di irregolare libertà.

4. Folgòre da San Gimignano

Su di un piano diverso di esperienza e di poesia si deve situare la personalità e l’opera di un altro senese, Folgòre da San Gimignano (nato nel secondo Duecento e morto prima del 1332), che al mondo piú plebeo di Cecco oppone il mondo di una borghesia ricca e raffinata, che afferma la sua forte posizione sociale con una vita fastosa e spensierata, organizzata (specialmente a Siena che sempre oppose al maggiore spirito economico fiorentino una certa opulenza e sfoggio di eleganza e di lusso) in quelle allegre «brigate spenderecce» di cui parla anche Dante nell’Inferno.

E proprio per una di tali brigate Folgòre scrisse due «corone» di sonetti (un’altra incompiuta riguardava la vita del «cavaliere») dedicate ai giorni della settimana e ai mesi dell’anno. Specie nella seconda, in cui di ogni mese si descrivono le particolari possibilità di piaceri di una brigata cavalleresca (caccia, pesca, tornei, ecc.), un franco ed elegante edonismo, una gioia del vivere senza bassezza e senza inutili complicazioni spirituali, si traduce con colori nitidi e intensi come certe miniature medievali dedicate ugualmente ai mesi e alle loro caratteristiche.

Ma il tipo di poesia di Folgòre è meno diffuso di quanto non sia quello di Rustico e di Cecco, che fecero scuola ed ebbero prosecutori e imitatori nella Toscana tra fine Duecento e Trecento: il fiorentino Pieraccio Tedaldi, il senese Bindo Bonichi, il lucchese Piero de’ Faitinelli (che ha alcune piú belle poesie legate al suo esilio politico), i perugini Neri Moscoli, Cecco Nuccoli, Marino Ceccoli nei quali il sapore delle forme dialettali e un piú aperto gusto di paesaggio hanno una piú particolare accentuazione di fresco realismo.


1 Erano rimatori in lingua provenzale (trobador da trobar: cercare e comporre in rima), che giravano dall’una all’altra corte recitando una svariatissima serie di componimenti.